20120725-115027.jpg

Alla fine l’amore per il Milan ha potuto più della voglia di far gol. Appendere le scarpette al chiodo a 39 anni e accettare la panchina delle giovanili di uno dei club più prestigiosi d’Europa può sembrare una scelta logica, facile, quasi scontata e banale. Ma se a farla è Pippo Inzaghi tutto cambia.
Per lui non era affatto scontato dire addio dopo 20 anni di carriera e 316 gol, dopo una stagione da emarginato e una sola rete segnata nel giorno dell’ultima con il Milan.

La voglia di riscatto era tanta. Quel desiderio di continuare a farsi beffe di guardalinee, difensori e portieri avversari, di vivere ancora con un occhio rivolto al filo del fuorigioco, l’altro al pallone, e il terzo, quello che solo i grandi campioni hanno, puntato costantemente verso la porta.

Ha fatto gol in tutti i modi in carriera: di destro, di sinistro, di testa; a porta vuota o partendo palla al piede da dietro il centrocampo, deviando più o meno volontariamente le conclusiosioni dei compagni o dribblando il portiere avversario; ne ha fatto persino uno con un calcio di punizione a giro sul primo palo, roba da specialisti, mica da parvenu dei piazzati.

Ha sofferto Pippo nell’ultima stagione, ma l’ha fatto in silenzio e nel rispetto del ruolo del suo allenatore. Non una parola di troppo quando, per ben due volte, è stato escluso dalla lista Uefa, un fatto che l’ha privato della Champions League e del sogno di inseguire ancora Raul come migliore marcatore europeo di tutti i tempi. Ha sofferto anche a gennaio, quando è stato sul punto di dire sì al Siena, ha sofferto nuovamente in questi mesi di vacanza. L’idea di lasciare il Milan anche solo per un anno gli faceva male, troppo per poterla accettare.

Tra il gol e la maglia ha preferito lasciare il gol, tradire una missione per sposare una causa. Ora insegnerà agli Allievi rossoneri come scomparire dalla vista del proprio marcatore per riapparire magicamente a due passi dalla rete. Proverà a trasmettere ai giovani l’entusiasmo che non gli è mai mancato, quello che per un gol segnato a 38 anni nell’ultima inutile partita di campionato l’ha fatto saltare e piangere come per la doppietta al Liverpool in finale di Champions League, come un bambino davanti ai regali di Natale.
Il campo gli mancherà, certo, ma sarà comunque a casa.

Mario, eroe normale

Pubblicato: luglio 7, 2012 in calcio, calcio italiano
Tag:

Le lacrime di Mario Balotelli dopo la sconfitta italiana contro la Spagna nella finale dell’Europeo di calcio.

Ci sono campioni amati perché straordinari esempi di fair-play: i Messi, i Del Piero, i Roberto Baggio. Ci sono invece altri che restano nel cuore degli appassionati per la ragione opposta, per il loro essere spesso sopra le righe, borderline con la follia: i Best, i Maradona, i Gascoigne. Non c’è dubbio che Mario Balotelli si avvicini più alla seconda categoria, ma l’attaccante che ha fatto arrabbiare e sognare i tifosi italiani durante l’ultimo Europeo è qualcosa di più complesso.

Balotelli è un eroe non convenzionale, un personaggio eternamente diviso tra il bene e il male, un Dottor Jekyll e Mister Hyde capace di gesti di autentica generosità e di colpi di testa eclatanti.
Ha una forza e una rabbia interiore che potrebbero renderlo un fenomeno, ma che ancora non ha imparato a controllare e indirizzare nel verso giusto. È il nostro Incredibile Hulk: nel dubbio lui «Spacca!», e dove prende prende.
È un antieroe bizzoso, egocentrico ed egoista. Un Achille che sa che da lui può dipendere l’esito di una sfida, ma che deve ancora decidere se ha voglia di scendere in campo o meno.

È un divo che ama i riflettori e allo stesso tempo li rifugge, che attira su di sé l’attenzione, ma poi vorrebbe essere lasciato in pace, incapace di comprendere che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ma anche grossissime fregature. Se sei un campione hai una lente d’ingrandimento costantemente puntata addosso, e sperare che determinati atteggiamenti passino inosservati è assolutamente irrealistico.

Balotelli è anche un outcast, un emarginato che ha dovuto lottare per essere accettato in un contesto che è invece sempre stato il suo. Ha atteso 18 anni per potersi dire a tutti gli effetti cittadino del Paese in cui è nato e cresciuto, e indossare la maglia della Nazionale che sente sua. Ha dovuto scalare le montagne della democrazia e farsi largo a gomitate tra i luoghi comuni e i cori da stadio che ne mettevano in evidenza il colore della pelle, ancora così insolito per un’Italia troppo giovane sotto il profilo dell’innovazione raziale. È un Frankenstein, del tutto umano ma spesso visto come ‘diverso’ e quindi allontanato e temuto dai suoi connazionali xenofobi. A differenza dell’eroe di Mary Shelley, però, Mario ha vinto la sua battaglia.

È ingenuo e naif, estremamente impulsivo e genuino. Fa quello che gli passa per la testa senza pensarci su e senza calcolare le conseguenze. Lo fa e basta, ma quando si rende conto di aver sbagliato è capace di provare sincero pentimento.
Deve ancora crescere, ma non è un Peter Pan. Il protagonista della commedia di James Barrie è egoista e incapace di provare sentimenti, vedi le persone vicine a lui come oggetti e quando si stufa è pronto a buttarle via come giocattoli. Peter Pan, dopo aver sconfitto il Capitan Uncino, non sarebbe mai corso ad abbracciare la mamma adottiva. E non solo perché, a differenza di Mario, non aveva avuto la fortuna di trovare dei genitori affettuosi che sostituissero quelli naturali.

Balotelli incarna alla perfezione la capacità di riscossa dell’essere umano. Dopo ogni botta ricevuta ha saputo rialzarsi, ha rischiato di morire neonato, è stato abbandonato dai genitori, ha subito insulti razzisti e sguardi stupiti di chi lo sentiva parlare con l’accento bresciano, ma è diventato un campione fino al punto di riuscire a conquistare anche il cuore dell’orco leghista Mario Borghezio, quello che disinfettava le carrozze dei treni occupate dagli africani e che l’ha definito un «padano con la pelle scura».
Nel suo essere straordinario, Balotelli è normale, mostra le sue debolezze e fragilità. Profondamente umano, nel bene e nel male.

Ho fatto un sogno. Ho sognato che il gol segnato da Mario Balotelli contro l’Irlanda, quella rovesciata da copertina, potesse cambiare la sua storia.
Nel mio sogno, quel gol, era come uno scroscio di pioggia che lavava via dalle spalle di Super Mario tutto il peso che ha per lui la maglia azzurra. Cominciava a giocare divertendosi e a divertirsi giocando, sorrideva ed esultava dopo i gol, ignorava fischi e insulti razzisti, che nel frattempo erano stati confinati a una ristretta minoranza di cretini che purtroppo, nemmeno nel mio sogno, erano spariti del tutto.

La gran parte degli italiani comunque lo amava, vedeva in lui non più solo una speranza ma una straordinaria realtà del nostro calcio. Un fuoriclasse vero e proprio. Mario non era diventato perfettino, un vero ‘Piccolo Lord’, di tanto in tanto continuava ad andare in escandescenze, reagiva alle provocazioni degli avversari, si faceva espellere, ma accadeva meno di frequente, e quando capitava nessuno si azzardava più a puntargli il dito contro, mettergli la gogna addosso e processarlo sommariamente.

Finalmente quella maglia azzurra gli calzava a pennello, lui ci si sentiva a suo agio, e nessuno badava più al colore della sua pelle in un’Italia in cui ai figli degli immigrati nati nel Paese era garantita la cittadinanza.
Per lui non c’erano più pressioni o ansie da prestazione, c’era solo il pallone, il campo, la porta da centrare. Riusciva a giocare libero da altri pensieri, a essere leader e trascinatore senza che glielo si chiedesse più.

Non so se il mio sogno finiva con Mario che alzava la Coppa del mondo o il Pallone d’Oro, ma forse nemmeno mi interessa. So che nel sogno Mario era felice, e noi felici di vederlo giocare a pallone per l’Italia, orgogliosi di poter avere un campione vero da sbandierare davanti ai nostri amici delle altre nazioni.

Se gli argentini citavano Messi, noi rispondevamo con Balotelli, se i portoghesi ci parlavano di Cristiano Ronaldo, noi ricordavamo l’ultima giocata di Super Mario, e nessuno di loro poteva più ritenere improponibile il confronto.
Era soltanto un sogno, è vero, ma perché non dovrei credere che possa avverarsi?

fonte: Gabriele Lippi per Slowfoot.eu

Alan Dzagoev disperato dopo l’eliminazione della Russia dagli Europei.

Diciamoci la verità: vedere uscire la Russia da un girone in cui si qualificano Grecia e Repubblica Ceca, è come trovarsi di fronte a una tavola imbandita con caviale, feta e insalata di patate e aceto, e sentirsi dire che no, il caviale non lo possiamo mangiare e ci toccherà sfamarci con feta e patate.

La Russia, in questo Europeo, è stata un po’ come un’ubriacatura da vodka. All’inizio è stata bellissima, ci ha messo allegria, ci ha divertito, poi è subentrata la stanchezza, quindi i postumi della sbronza con tutto ciò che di negativo portano.
Un’illusione durata lo spazio di una partita: quella di aver trovato la squadra spettacolo e

simpatia dell’Europeo, con un Arshavin diverso dalla copia sbiadita che qualche mese fa aveva lasciato l’Arsenal, e un piccolo principino come Alan Dzagoev.
D’altra parte la storia russa è fatta di sogni magnifici e durissimi risvegli. È successo con la “Rivoluzione d’ottobre”, nata da bellissimi principi di uguaglianza sociale e sfociata, dopo la morte di Lenin, nella dittatura stalinista, ed è successo più recentemente con Perestrojka e Glasnost, foriere di un’illusione di democrazia e trasparenza spezzata una volta per tutte dalla realtà della democratura di Putin.

Tanto talento sprecato, come spesso capita ai russi, geniali e scostanti, come Roman Pavlyuchenko, che se solo avesse avuto un decimo della continuità di Mario Gomez potrebbe essere uno dei centravanti più forti al mondo.
Vedere la Russia giocare è stato un po’ come trovarsi davanti a una matriosca e consumarla di volta in volta: grande all’inizio, di dimensioni piuttosto normali in mezzo, piccola piccola alla fine.
Un po’ come assistere impotenti allo scioglimento della coltre di neve che impediva agli avversari anche solo di minacciare l’Armata Rossa di Dick Advocaat, per crollare poi contro un avversario tra i più mediocri che potessero capitarle: la Grecia.

Eppure l’amarezza resta, perché in quella partita contro la Repubblica Ceca, e nell’amichevole precedente con l’Italia, la Russia aveva fatto vedere sprazzi di calcio godibilissimo, qualcosa che certamente, d’ora in avanti, mancherà all’Europeo, e che certo è difficile pretendere da greci e cechi.
Sarà come provare ad assaggiare la bekerovka perché è finita la vodka, o ballare il sirtaki dopo aver ascoltato incantati le note di Tchaikovsky.
Perché anche se resteranno tante stelle a illuminare i cieli polacchi e ucraini, ci mancheranno le accelerazioni di Arshavin, gli inserimenti di Dzagoev, le sovrapposizioni di Zhirkov e Anyukov, i movimenti da centravanti di Pavlyuchenko.
Grandi campioni di indolenza, eppure unici a modo loro.

Cesc Fabregas e David Silva esultano dopo il gol del pareggio contro l'Italia (sullo sfondo Giorgio Chiellini).

Fonte Gabriele Lippi per www.slowfoot.eu

Il calcio cambia, si evolve. C’è chi se ne accorge e si aggiorna subito, e c’è invece chi rimane troppo a lungo ancorato a vecchi schemi. Si può giocare senza un centravanti di ruolo? Il Barcellona ha dimostrato che è possibile, ma per alcuni ilsistema Guardiola non è replicabile in assenza di un ingrediente fondamentale: Lionel Messi.
Di Messi ne esiste uno solo, naturalmente, ma davvero senza la Pulce non si può rinunciare alla prima punta? Il dibattito è tornato nuovamente d’attualità, in Spagna e in Italia, dopo la scelta di Del Bosque di schierare contro gli Azzurri una squadra senza punte e con tre fantasisti. Al centro dell’attacco (se così si può dire), Cesc Fabregas, che con il Barça, nella stagione appena conclusa, ha interpretato più volte il ruolo del ‘falso delantero’ alla Messi.
Cesc ha segnato, e precedentemente le incursioni di Silva e soprattutto Iniesta avevano dato qualche fastidio alla difesa italiana.

A detta di molti, tuttavia, aver lasciato Fernando Torres e Fernando Llorente in panchina resta una scelta incomprensibile che ha agevolato il lavoro di Prandelli. Non è in alcun modo in discussione il valore dei due attaccanti (del secondo in particolare), ma davvero il calcio a cui è abituata da anni la Spagna è ancora praticabile con un punto di riferimento avanzato?

Da quando Del Bosque ha scelto di sposare (con ottimi risultati, è bene ricordarlo) la filosofia calcistica del Barcellona, fatta di possesso e circolazione di palla veloci, l’impressione è che una punta forte fisicamente possa essere di intralcio. Orfana di Villa, la Spagna si è trovata davanti a un bivio: cambiare modo di giocare o rinunciare al punto di riferimento avanzato. La scelta tattica di Del Bosque aveva, e ha ancora, perfettamente senso, anche alla luce del fatto che Torres, da due anni e mezzo, non è più il meraviglioso giocatore dell’Atletico Madrid e dei primi anni a Liverpool.

Al più si potrebbe sostenere che, tra gli uomini portati in Ucraina e Polonia dal ct spagnolo, ce n’è almeno uno che sembra poter incarnare piuttosto bene le caratteristiche del ‘falso delantero’. Si tratta di Juan Mata, che al Chelsea fa l’ala, ma a Valencia giocava ben più vicino alla porta. Dotato di classe, proprietà di palleggio, imprevedibilità. Perfino mancino come Messi.
Del Bosque gli ha preferito Fabregas dall’inizio, Torres a partita in corso. L’impressione è che sì, in questo caso, abbia fatto un favore al nostro citì, e  a Buffon, al quale è bastato improvvisarsi stopper e guardare un tentativo di pallonetto finire sopra la traversa per neutralizzare il centravanti una volta chiamato ‘El Niño’ e che davanti alla porta, ormai, è più innocuo di un bebè.

L’ex premier ucraina Iulia Timoshenko mostra i lividi lasciati sul suo corpo dai carcerieri.

Basta un pallone che rotola a unire un popolo che si spacca praticamente su tutto. Noi italiani siamo così: pazzi per il calcio, altrimenti, semplicemente, non saremmo italiani. Domenica, per l’esordio europeo degli Azzurri contro la Spagna, erano più di 12 milioni davanti alla tv, con uno share pazzesco oltre il 62%. Quasi un italiano su tre, in una domenica che per molti era di inizio estate, ha scelto di restare in casa a tifare per la Nazionale.

Eppure, a ben vedere, di motivi per boicottare questa edizione degli Europei ce ne sarebbero a bizzeffe. Il calcioscommesse, per restare in casa nostra, con tutto lo schifo che ha fatto emergere. È possibile, dopo tutto quello che abbiamo letto e visto, credere ancora che il calcio sia uno sport pulito e che i risultati delle partite non siano in qualche modo combinati precedentemente? È possibile illudersi ancora pure quando il capitano della Nazionale sostiene senza alcuna vergogna che «non c’è niente di male se due squadre si mettono d’accordo per il pareggio»? Forse no, ma a noi non importa. Infondo vivere in questa illusione è sempre meglio che accettare la dura realtà e privarci del pallone.

Ma di ottime ragioni per non vedere le partite degli Europei ce ne sono tante altre. Dal razzismo dei polacchi, capaci in meno di un secolo di passare dal ruolo di vittime del nazismo a quello di “carnefici” con la svastica, alla prigionia di Iulia Tymoshenko, leader dell’opposizione ucraina e della rivoluzione arancione, maltrattata e malmenata in carcere. Angela Merkel, per questo motivo, ha scelto di non andare a vedere una sola partita della Germania, Giorgio Napolitano invece era lì, a Danzica, mentre noi guardavamo gli Azzurri in tv.

E che dire dei poveri cani randagi massacrati in Ucraina per “ripulire” le strade che avrebbero accolto centinaia di migliaia di turisti da tutta l’Europa? Per loro questo torneo è stato una condanna a morte, non un’occasione di divertimento. Tutti restiamo giustamente inorriditi davanti a queste storie, nessuno però ha poi la forza di privarsi delle partite della Nazionale, della gioia di fare il tifo, di quell’evasione da una quotidianità fatta di spread galoppante e tasse sempre in crescita, che dura 90 minuti, e qualche volta un po’ di più.

Dopo tutto, altrimenti, non saremmo italiani.

Per fortuna che c’è il campo, verrebbe da dire, per fortuna che c’è il pallone. Ci voleva una domenica così, speciale nel suo essere sostanzialmente inutile, per rendere giustizia a due veri campioni, fin troppo maltrattati dai loro allenatori e dalle loro società. Pippo Inzaghi e Alex Del Piero lasciano così, come hanno sempre vissuto. Per il gol il primo, per la Juve il secondo. Da signori, da campioni. Serviva il campo per ricordarcelo per sempre, perché il campo non mente mai, a differenza dei presidenti, dei direttori sportivi, dei tecnici.

Ce li spacciavano per bolliti, Pippo e Alex, e qualcuno ci ha pure creduto. Colpa anche di un’anagrafe che, diciamoci la verità, con loro non è più particolarmente generosa. Inzaghi va per i 39 (da compiere ad agosto), Del Piero è un anno più giovane. Eppure bolliti non sono, nemmeno dopo una stagione così, vissuta dietro le quinte.

In modo diverso certo, nella forma e nella sostanza. Perché Del Piero ha giocato 27 partite, Inzaghi solo 7, Alex ha segnato 5 gol, alcuni decisivi e bellissimi, Pippo solo uno, da tre punti. Il capitano della Juve metterà in valigia, prima di andar via, lo scudetto (l’ottavo secondo gli organizzatori, il sesto secondo la questura), il bomber rossonero la rabbia e il rammarico per non aver nemmeno potuto provare a raggiungere e superare Raul come migliore marcatore nelle competizioni europee.

Allegri non l’ha proprio visto, fin dal suo arrivo. L’ha ostracizzato, si è messo tra lui e il Milan, il suo più grande amore, tanto da scegliere di restare a gennaio, quando avrebbe potuto scegliere di andare a giocare e segnare ancora. A Del Piero, con Conte, è andata un po’ meglio. Ha giocato col contagocce, ma ha giocato. Il guaio l’ha fatto Andrea Agnelli, il presidente, con quel comunicato a sorpresa con il quale, con ampio anticipo, ha annunciato la separazione tra la Juventus e il suo capitano.

Uno così avrebbe meritato ben altro trattamento, magari una conferenza stampa congiunta sullo stile di quella con cui Guardiola ha salutato il Barça, un posto da dirigente (che magari arriverà, ma attualmente non risulta sia stato offerto), un busto nello Juventus Stadium. Del Piero è stato di fatto cacciato, e questo non l’avremmo mai voluto vedere.

Così c’è voluto il campo per ridare giustizia a entrambi, celebrati con il gol, specialità della casa. Inzaghi ne ha segnati 288 in carriera, Del Piero 291, 290 dei quali con la maglia della Juventus. Un altra rete, un’altra esultanza davanti ai propri tifosi, prima di andare via. In un giorno speciale, in cui anche Alessandro Nesta, il difensore più elegante che l’Italia abbia mai conosciuto, ha salutato San Siro, con Gattuso, Seedorf e Zambrotta. Una magnifica sinfonia degli addii, in cui però proprio nessuno avrebbe mai voluto abbandonare l’orchestra.

Pubblicato: Maggio 13, 2012 in calcio, calcio italiano
Tag:, , , , , , ,

Il calcio è bello perché sa dare emozioni, anche quando il campo ha già espresso i suoi verdetti, anche quando i tre punti assumono un valore del tutto relativo e diventano l’ultima delle preoccupazioni. L’ultima partita di Pep Guardiola al Camp Nou è stata perfetta, meglio di così non si poteva chiedere. Tanto bella da sembrare quasi scritta da uno sceneggiatore, e in parte senza dubbio lo è stata.

Perché certamente il discorso finale dell’allenatore aveva avuto un minimo di preparazione, ma tutto il resto era terribilmente spontaneo. L’affetto della gente, le sciarpe con su scritto “Gràcies Pep”, l’enorme striscione mostrato sugli spalti, “T’estimem Pep”. La commozione di Guardiola, prima seduto in panchina accanto a Tito Vilanova, poi con il microfono in mano e la voce rotta nel ringraziare tutti per quattro anni che, nelle sue parole, sono stati «Un privilegio». La promessa di ritornare presto, le lacrime del capitano Puyol, l’abbraccio di tutta la squadra al gol del 4-0 di Messi.

Anche il caso poi ci ha messo del suo nel rendere ancora più memorabile quel 5 maggio 2012 da consegnare alla storia del Barcellona. Il calendario, innanzitutto, che non si è limitato a offrire un avversario qualunque, ma l’Espanyol, rivale cittadino, concedendo a Guardiola di chiudere con il primo derby vinto in casa in quattro anni (potrà sembrare incredibile, ma è davvero così). I quattro gol di Messi poi, che era arrivato al pre partita con 46 centri in campionato e due obiettivi nel mirino: quota 50 e il record mondiale di Archie Stark, che nel 1924-25 aveva segnato 70 reti in una sola stagione con la maglia del Bethlehem, nell’American soccer league, antenata della Major league soccer statunitense. Entrambi centrati.

Tutto perfetto insomma, per un addio speciale a un allenatore speciale. Ancora una volta è stato il lato umano di Guardiola a brillare più ancora dei trofei che ha conquistato in quattro anni (13 su 18 a disposizione, e ce n’è un quattordicesimo ancora da provare a vincere, nella finale di Coppa del Re con l’Athletic di Bilbao). Anche e soprattutto per questo il popolo blaugrana l’ha voluto ringraziare con uno spettacolo che poche volte si è visto per un allenatore. Perché quello che ha fatto è qualcosa di straordinario, e meritava un finale altrettanto straordinario.

Barcellona-Espanyol 4-0. Quattro gol di Messi e cinquantesimo in campionato

 

Il discorso d’addio di Guardiola

20120425-114116.jpg

Eccola la prima sorpresa: il Chelsea va in finale di Champions League. In pochi l’avrebbero potuto prevedere, quasi tutti davano per scontata una finale tra Barcellona e Real Madrid, molti addrittura vedevano un disegno della Uefa, dietro ai sorteggi, perché fossero le due spagnole ad affrontarsi nell’ultimo atgo della competizione a Monaco.

Non sarà così. I blaugrana escono in semifinale dopo 180 minuti di sostanziale dominio contro un Chelsea difensivista e fortunato, gli italiani festeggiano quasi come se in finale ci fosse andato il Milan. Ecco cosa è l’Italia calcistica: un Paese ormai piccolo piccolo, costretto ad aggrapparsi ai cavilli per godere della possibilità di conquistare un titolo prestigioso.

Il Chelsea ha giocato all’italiana, in panchina c’è un italiano (nato in Svizzera), e tanto basta a sentire un po’ nostro il successo del Chelsea. Complimenti a Di Matteo, subentrato sottovoce all’acclamatissimo Villas Boas per portare in finale una squadra che qualche mese fa sembrava alla fine di un ciclo. Senza dubbio se li merita, li meritava anche quando, alla guida del modesto West Bromwich Albion, aveva già dimostrato il suo valore di tecnico, con un calcio ben più propositivo si quello mostrato nel doppio confronto con il Barcellona, ma cosa c’entra il calcio italiano?

In finale ci va un’inglese, in attesa di sapere se affronterà una spagnola o una tedesca. Il Milan si è fermato ai quarti, Napoli e Inter agli ottavi: il calcio italiano ha fallito, punto. Inutile cercare consolazioni nel successo di Di Matteo, o nella nostra paternità del modulo “catenaccio e contropiede” che ha portato al successo i Blues. L’Italia, al calcio, non ha dato solo Rocco o Trappattoni. Per fortuna ci sono stati anche Sacchi, Ancelotti e la prima Juventus di Lippi, o tornando indietro di parecchio, il Grande Torino: squadre che dominavano e non avevano paura di nessun avversario.

Smettiamola dunque di esultare ogni volta che la difesa vince sull’attacco, non ci fa onore. Pensiamo al nostro di calcio, a come farlo rialzare. Viviamo nel presente, non nel ricordo di ciò che è stato, e smettiamola di essere indulgenti con noi stessi nascondendo la crisi del nostro calcio dietro il primo dito che capita. Solo con l’autocritica si può crescere davvero.

20120423-160925.jpg

Resistenza passiva. L’impressione è che se si fosse trattato di una protesta per il diritto al lavoro o qualcosa di altrettanto serio, saremmo stati tutti dalla parte della Curva del Genoa. Il problema è che si parla di calcio, e l’episodio di Marassi, con la partita fermata dagli ultras, è l’ennesima dimostrazione di come in Italia si attribuisca un’importanza eccessiva a quello che resta pur sempre un gioco, per quanto costosissimo. E invece il calcio tira fuori il peggio di noi, ci mette in competizione gli uni con gli altri, scatena invidia e odio. Non potendo costruire torri per dimostrare la nostra superiorità sugli altri, demandiamo questo compito alla nostra squadra di calcio.

Nessuno si è fatto male, ma questo non può bastare. Nel calcio non esiste democrazia: da una parte ci sono le società e i loro dipendenti (tecnici e giocatori), dall’altra c’è il pubblico, ed è bene che le due cose rimangano rigidamente separate. Si possono togliere le barriere negli stadi, sarebbe anche auspicabile sotto certi aspetti, ma poi si vedono scene come quella di ieri e uno ci ripensa su.

Siamo davvero maturi? A giudicare dalla stagione della Juventus, la prima in Italia a mettere i tifosi a bordo campo, sì (ma è anche vero che i risultati aiutano), a vedere i fatti di Genova, purtroppo, no. Il Wolverhampton ieri è retrocesso matematicamente perdendo in casa contro il Manchester City: dai suoi tifosi solo applausi. In Inghilterra non si invade il campo, non si impedisce ai calciatori di giocare. Ecco perché le barriere non esistono: sono semplicemente superflue.

In Italia è tutto diverso. Le società intrattengono rapporti con gli ultras, talvolta pagano loro le trasferte, capita che ne diventino ostaggio. È quello che è successo ieri. Chi paga il biglietto ha il sacrosanto diritto alla contestazione, ma non può in nessun modo minacciare o ricattare giocatori, presidenti, allenatori.

L’aspetto peggiore è però il fatto che questi ultimi si pieghino al volere degli ultras, che sia per connivenza o arrendevolezza. Vedere il capitano del Genoa, Marco Rossi, togliersi la maglia e raccogliere quelle dei compagni per consegnarle ai tifosi, è stato veramente brutto. La resa del calcio, completamente impotente, resa ancora più ridicola dalla dimostrazione che bastava reagire, come Sculli, rifiutandosi di obbedire, per riportare la situazione alla normalità.

Si potrebbe infine affrontare il discorso su come il tifoso vero si dovrebbe comportare durante i momenti di difficoltà della squadra, ma si rischierebbe di scadere nella retorica. In ogni caso, chiunque abbia praticato sport a livello agonistico, sa che a nessuno piace perdere: non a chi è sugli spalti, tantomeno a chi scende in campo. Basterebbe pensare a questo per evitare di cascare nell’odioso e banale refrain dei “giocatori mercenari”.

Pubblicato: aprile 23, 2012 in calcio, calcio italiano
Tag:, , , , , ,